La drammaturgia come lavoro d’insieme – Intervista a Katia Scarimbolo
Katia, cos’è per te la drammaturgia? Se dovessi utilizzare una metafora per descriverla, in che modo la descriveresti?
La prima cosa che mi viene in mente è lo spazio. Per me la drammaturgia è, fondamentalmente, il racconto nello spazio. È qualcosa che accade lì, in teatro, in quel momento. E lo spazio condiziona la scrittura; non riesco mai ad immaginare un testo che non parta proprio dallo spazio perché i corpi si muovono nello spazio, noi viviamo nello spazio. C’è una tensione fra lo spazio e il destinatario, che sono i due punti fondamentali per me, sia quando scrivo, sia quando faccio la dramaturg per i lavori di Michelangelo Campanale.
Per destinatario intendi il pubblico?
Sì, il pubblico, perché per me il teatro è un atto di comunicazione. E quindi la domanda è sempre: io cosa voglio comunicare, cosa voglio dire? A volte si parte da una grande confusione, non subito è chiaro cosa si vuole dire, soprattutto per come lavoriamo noi, dove lo spazio, i corpi, le parole, i costumi, sono tutti drammaturgia. A volte semplicemente è una combinazione di cose che fa nascere una scena. Però nonostante questo, il destinatario è centrale, è come una bussola; come il nord nella bussola.
Rispetto alla scenografia, all’illuminotecnica, ai costumi: in che modo avviene la composizione? Sembra che ci sia un lavoro di drammaturgia quasi collettivo nella partitura.
La modalità di lavoro è organica, non ho un’altra parola per descriverla, ed è quindi un lavoro di grande intesa, non può essere diversamente. È un metodo di lavoro che abbiamo messo a punto negli anni, quella della Luna nel letto è una squadra. È chiaro che Michelangelo è il regista, il nostro è un teatro di regia e il regista dà la direzione, ma ognuno di noi è nel progetto. Se penso adesso a “Romeo e Giulietta”: il lavoro degli attori, le luci di Michelangelo Volpe, le scene, il mio lavoro sul testo, i costumi: era tutto organico, una cosa finiva nell’altra. Se penso ai nostri spettacoli, il primo e l’ultimo “La bella addormentata” e “Romeo e Giulietta”, in entrambi i casi siamo partiti da un elemento. Nel primo caso dal fatto che c’era un letto e che dovevamo sognare, e quindi tutto quello che il sogno porta con sé. Ognuno nel proprio ambito, e da lì poi ognuno crea, costruisce. Per Shakespeare siamo partiti dalla figura del prete, dalla chiesa. Cosa unisce i rumeni e gli italiani? E’ stato il crocifisso, i nostri crocifissi che si somigliano, soprattutto quello di Cimabue; quelli di quel periodo, del 1300, sono molto vicini, hanno ancora l’eco di tutta la cultura bizantina. E così siamo partiti da un crocifisso, e questo crocifisso muove l’immaginario e si parte, e si va. Ed è organico. Non lo so dire diversamente, è proprio così.
Rispetto al teatro ragazzi, che ha una drammaturgia, in qualche modo a sé, a volte diversa da quella del teatro di prosa, tu come drammaturga, che tipo di percorsi metti in atto, che tipo di processo metti in atto nella scrittura?
Per me la scrittura per il teatro è simbolica, è metafora. Anche perché noi, con le fiabe, abbiamo lavorato molto sugli archetipi e questo dà una direzione precisa al lavoro. La parola è sempre simbolica, è sempre in qualche modo poetica, non sta mai nell’ambito solo della razionalità per portare avanti il discorso. È chiaro che in una struttura drammaturgica tu hai i punti di svolta dove devi andare avanti, la storia va avanti, soprattutto con i bambini è necessario un percorso narrativo, però se penso ad “Hansel e Gretel” realizzato con il Crest, ruotava intorno alla luce e al buio perché nella fiaba di Hansel e Gretel c’era questa frase: “Ad ogni notte segue sempre il mattino”. È da questa idea che sono partita. Per me le fiabe sono scrigni che possono essere visti da vari punti, dipende da te e da quello che stai cercando. Però siamo sempre in una dimensione poetica, in una dimensione molto intima e molto profonda; anche nella fiaba e così, lì è in gioco la vita, non è un intrattenimento, e quindi ogni volta che faccio il mio lavoro ogni parola è veramente levigata, pesata, ogni parola è densa perché è sempre simbolica.
E in questa visione simbolica della parola, c’è una differenza tra come affronti una drammaturgia per ragazzi e come affronti una drammaturgia di prosa?
No. È uguale, non solo per me ma per tutta la compagnia, non c’è differenza perché il meccanismo creativo è quello, ed è per questo che i nostri spettacoli riescono a parlare anche agli adulti. Anche il nostro “Romeo e Giulietta” di adesso è trasversale. Il nostro è un metodo di lavoro che parla proprio a tutti perché per noi non esiste l’arte adattata; ci può essere il tema più idoneo o meno idoneo, ma la composizione e l’uso dell’arte, delle parole o delle immagini è uguale. Non c’è assolutamente differenza.
Nella tua formazione ci sono dei drammaturghi, un autore o autrice, un testo di riferimento, che definiresti centrale nella tua vita e nella tua formazione?
Potrà sembrare paradossale, ma per me un punto di riferimento è Pina Bausch, è la danza. Ad esempio “Café Muller”, è fantastico, è micidiale, c’è quella capacità di parlare a tutti, di trasformare la danza e di parlare dell’animo umano. Poi io adoro Shakespeare sicuramente. Mi piace tantissimo chi ha la capacità di scandagliare l’animo umano. Mi viene in mente anche Leo de Berardinis con “Scaramouche”.
Al di là dei testi di Shakespeare, secondo te qual è un testo che non dovrebbe mancare in un archivio di teatro?
“Medea”, è un testo meraviglioso. I classici greci sono proprio l’essenza del teatro. Se qualcuno vuole, senza sovrastrutture, capire come funziona il teatro, può leggere un autore greco e lo capirà immediatamente.
Puoi dirci qualcosa in più rispetto alla questione della composizione, come metodo di lavoro della compagnia. Immaginiamo sia imprescindibile.
È un metodo di lavoro e non tutti riescono a starci dentro, perché non è razionale. Devi avere delle competenze e ti devi lasciar andare a quel gioco come se giocassi a nascondino. Non è necessario fare troppe domande, devi starci, è un flusso; è molto vicino al gioco. Quando io ho lavorato, curando la drammaturgia, per “Nebula”, lo spettacolo che ho creato con Annarita De Michele e con Julie Stanzak, la danzatrice di Pina Bausch, siamo partiti da una poesia della Szymborska, di cui alla fine è rimasto solo un rigo. In quel progetto io non dovevo neanche esserci, non conoscevo Julie, stavo facendo un lavoro con Annarita, con i bambini a scuola, sulla danza, e Annarita disse “Katia io vorrei che tu fossi con me”. Non avrei mai immaginato di lavorare con Julie Stanzak! E così assistevo alle prove, poi un giorno Julie mi chiese “tu che pensi?”
Da quella domanda si sono messe in moto delle dinamiche che mi hanno fatto entrare nel lavoro di creazione perché Julie ha ritenuto che avessi lo sguardo giusto per sviluppare il lavoro. Ma io non avevo un quaderno con le annotazioni scritte, avevo i fogli, tanti appunti presi e mischiati, e mentre avvenivano le improvvisazioni di danza, succedeva che mi ricordavo il suono di una frase – quindi c’è anche molto la musica – che poteva essere giusto per quel momento. Io ricordo che cercavo dei fogli e dicevo “Julie secondo me è questa!” e questo è lavorare insieme: stare sul pezzo. È come ricevere una palla. Con questo intendo il gioco, lì ero in gioco totale. In quel caso i testi erano piccoli, d’accompagnamento, però era importante l’incastro. Si creava così la drammaturgia della danza ed è stato bellissimo.