Giulio De Leo, danzatore e coreografo.
Giulio, vorremmo che iniziassi dicendoci cosa è per te la drammaturgia.
Per me la drammaturgia è una riflessione che indubbiamente passa attraverso il discorso, attraverso l’articolazione del pensiero. Un processo imprescindibile dall’ideazione coreografica. Io personalmente non riesco a far a meno di avviare una riflessione di carattere drammaturgico prima, durante e dopo la creazione, perché spesso, anche quando lavoro con i danzatori (non parlo solo dei danzatori professionisti, ma anche degli amatori, dei cittadini, delle comunità) mi aiuta a guidare l’interprete non tanto attraverso l’imitazione del gesto o l’esecuzione della scrittura, ma attraverso dei concetti e delle immagini. Mi interessa portare il danzatore dentro un clima creativo specifico, mediante la riflessione sulle tematiche e sulle prospettive da cui è possibile guardare a quelle tematiche; per cui ci possono essere momenti di dialogo, di riflessione, di raccolta, in seguito ai quali questi frammenti o argomenti vengono ancora ri-elaborati. Mi avvicino alla materia di studio attraverso processi che non sono necessariamente legati solo alla riflessione e alla scrittura. A volte sviluppo la drammaturgia anche a partire da una sorta di diario di viaggio fotografico, perché quello fotografico per me è un linguaggio istintivo, quasi al pari della danza. Mi aiuta a fissare una prospettiva da cui guardare le cose: quel paesaggio, quell’evento, quel gesto, una serie di coincidenze, cose che sono lì perché tu sei in quel momento in quel luogo a guardarle e quindi sono accadimenti che puoi osservare in quella posizione e in quel punto dello spazio, in quel momento preciso. Tutto contribuisce ad elaborare un qualcosa che sta prima dell’opera.
Quale metafora useresti per descrivere la tua idea di drammaturgia?
È come un vecchio dagherrotipo; è come se tu scattassi su una pellicola che soltanto dopo andrai a sviluppare nella camera oscura. La sala prove è la camera oscura.
Questa definizione si riferisce alla drammaturgia della danza o a qualcosa di più generale?
Se parliamo di drammaturgia come discorso, come riflessione che poi deve orientare l’agire, ci si riferisce alla creazione in generale. Si può fare una riflessione sullo sviluppo di una determinata opera o di un determinato processo, oppure riflessioni più ampie che possono avere uno spazio differente, articolate, documentate, che possono acquisire una dignità narrativa o argomentativa che le rende di interesse collettivo: pubblicazioni, testi sulla danza contemporanea come ha fatto Alessandro Pontremoli, con “La danza 2.0”, un lavoro importante e utile.
Se tu dovessi indicare un drammaturgo che per te è stato un punto di riferimento quale nome faresti?
Per me ci sono due punti di riferimento, uno è sicuramente Peter Brook, “Il punto in movimento”, l’altro è A. Tarkovskij. Ci sono dei passaggi, nei testi di A. Tarkovskij dove se tu sostituisci la parola cinema con la parola danza, o la parola sguardo con la parola gesto, ne ricavi delle indicazioni magistrali su quale approccio l’artista dovrebbe avere nei confronti dello stesso linguaggio della danza. Lui tiene tanto al fatto che il regista collochi la camera e quindi si collochi lì dove sta lasciando parlare il paesaggio davanti alla camera senza indicare allo spettatore cosa deve guardare. Secondo lui anche i movimenti della camera devono essere organici con l’azione. Per me quello è stato un grande insegnamento e mi è venuto naturale cercare di portarlo nella mia esperienza artistica. Indicazioni che vanno al di là della specifica disciplina della danza. La visione dell’arte e della vita di questo grande regista russo mi ha guidato più spesso di quanto non abbiano fatto grandi esperienze artistiche nell’ambito della danza.
E quindi qual è un tuo testo di riferimento?
“Scolpire il tempo” di A. Tarkovskij, che con questa visione così pura, quasi astratta, del cinema, si avvicina tantissimo alla danza perché lui parla di spazio e tempo. L’idea del cinema come qualcosa che va a scolpire il tempo è un concetto molto vicino alla danza, perché non fai altro con i gesti, che segnare il tempo e lo spazio.
Quale percorso drammaturgico segui in quanto coreografo per la creazione di uno spettacolo?
In questo momento sento che la drammaturgia che ho sviluppato nel mio ultimo lavoro “Tirana my rhythm” rappresenta la sintesi di tutto il mio percorso personale. Sono stato invitato in Albania per un progetto di creazioni in cui erano previsti due periodi di residenza durante la quale potevo osservare la città e incontrare un Paese nuovo, conoscerlo, attraversarlo, ascoltarne i suoni, le lingue … e quello è stato un incontro potente, ho sentito un forte richiamo. Lo osservavo cercando di coglierne i contrasti molto forti. Mi affascinava il fatto che da questo paesaggio urbano in evoluzione rapidissima verso l’ipermodernismo americano, venivano fuori forti elementi di ruralità. Mentre la prima volta sono stato in albergo, le volte successive ho abitato in un quartiere popolare e lì è cominciata la scoperta di un universo incredibile. Non sapevo come procedere con il lavoro e non era nemmeno chiaro quali produttori avrebbero potuto davvero sostenere una mia ricerca, ma era forte l’interesse per il paesaggio culturale e per le danze popolari albanesi, perché sono tante, molto caratterizzate, ricche e specifiche. A sud sono molto dolci, a Tirana sono un po’ un mix e invece al nord e nel Kosovo sono molto saltate, molto marziali. La caratteristica comune a tutte comunque è che la figura femminile è quasi di decoro, poco esposta, mentre la figura maschile è molto forte, si espone e conquista. Una matrice comune a molte danze del mediterraneo, ma mi affascinava la metrica regolare dei costrutti coreografici. Poi finalmente incontro la persona giusta: Gjergj Prevazi, direttore del teatro Nazionale sperimentale di Tirana dove si produce e programma drammaturgia contemporanea e danza contemporanea. Gjergj mi ha invitato a coreografare per la sua compagnia, e lì mi è stato subito chiaro come avrei dovuto sviluppare il lavoro. M’immaginavo i danzatori dentro lo stesso processo di osservazione del paesaggio che avevo attraversato io. Ho organizzato il viaggio nel paesaggio in tappe, tappe che erano emerse dalle immagini fotografiche scattate nei primi periodi di permanenza a Tirana. Le fotografie componevano uno story board utile allo sviluppo della coreografa e dei video ad essa associati. Lo spettacolo è composto da 10 quadri e 10 danze. 10 quadri dove ogni quadro era evidente nella scena come scenografia virtuale, quindi immagini video proiettate in scena a tutto fondale; la relazione che cercavo era di carattere simbolico oppure evocativa della qualità dello spazio urbano che si vedeva vivere.
Le immagini sono state un supporto importante perché collocavano in un paesaggio a loro vicino (danzatori) la mia riflessione e addirittura era come se loro attraverso i miei stessi occhi potessero guardare al loro paesaggio in un modo diverso. A quel punto abbiamo iniziato a lavorare in sala e sentivo che era un lavoro che doveva avere una matrice rituale, ciclica, minimale… Perché i quadri fossero evidenti nella loro diversità non dovevo creare 10 coreografie differenti. Il danzatore e lo spettatore dovevano essere dentro un viaggio simile a quello che avevo fatto io, mentre mi spostavo nella città. Immaginavo il corpo quasi come un “walking body”, un corpo che attraversando il paesaggio “crea” un racconto, senza nessuna velleità narrativa. I danzatori erano molto diversi tra di loro, rispetto al loro background.
Ho chiesto ai danzatori di mostrarmi alcuni passi delle danze popolari e una delle cose che mi ha colpito di più è un pas de bourré che tutti conoscevano molto bene, quello della danza de “Il pantalone rosso”. Tutti in Albania studiano da quando sono piccoli il repertorio della danza popolare, è una cosa che deriva dalla storia comunista. Da quel momento è iniziato un gioco di modulazione coreografica guidata dalla relazione con i quadri video. Il processo ideativo e la drammaturgia come riflessione e discorso che orienta la creazione hanno proprio preso corpo così.
La comunità è Centrale nel nostro progetto “Tutto il teatro”, che ruolo ha nei tuoi progetti artistici, dove sembra centrale, e in che modo la comunità è coinvolta?
Per me lavorare con le comunità è un discorso prima di tutto di vocazione. Riconosco che in questa vocazione c’è molto del mio interesse per quello che ci circonda, per la realtà, per l’incontro con il mondo reale, tutto quello che si può muovere intorno ai luoghi d’arte che spesso ho sempre sentito un po’ chiusi su se stessi. Oggi per me sostanzialmente non esiste più alcuna differenza nello sviluppo del processo di lavoro quando lavoro con le comunità e quando lavoro con i danzatori professionisti. Nel senso che lo sviluppo del processo rimbalza continuamente tra queste due sponde e l’una alimenta l’altra; per me è difficile onestamente dire quanto per esempio la collaborazione con una straordinaria danzatrice come Erika Guastamacchia non abbia poi determinato una serie di scelte, metodologiche, estetiche, progettuali con le comunità ed è difficile anche porre esattamente un limite tra le due. Perché a un certo punto io ho sentito che proprio dentro di me la barriera fa adesso faccio questo adesso faccio quest’altro è caduta. Soprattutto anche grazie all’insegnamento di grandi maestri come Virgilio Sieni ho capito che quel tipo di pratica non era un laboratorio, non aveva una dimensione di carattere didattico ma era uno spazio di ricerca pura, di indagine estetica, di indagine se vogliamo anche antropologica e politica.